C’era una volta…

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C’era una volta James Herriot, c’erano una volta i Medici Veterinari che svolgevano la loro professione nelle campagne, tra un buon bicchiere di vino e quanto generosamente veniva loro offerto si occupavano di far nascere vitelli e puledri, rimettevano in sesto galline e tacchini, pecore e capre, che spesso erano la sola risorsa delle famiglie che richiedevano con sacrificio ma con estremo rispetto il loro servizio.

Il cane non conosceva l’ambiente domestico ma solamente l’aia e i gatti, se c’erano, erano solo splendidi e affascinanti predatori che tenevano lontani topi e ratti dai granai.

Questa realtà che ci ha preceduto di poche decine di anni sembra tanto lontana da perderne la memoria: il Medico Veterinario ora è uno specialista che passa le sue giornate in cliniche ultramoderne, ad occuparsi di animali che vivono in ambienti così diversi da quelli naturali da diventare causa di malattia. Non è certo un caso se troppo spesso animali e persone con cui abitano presentano gli stessi sintomi, gli stessi malesseri.

La tecnologia in medicina, sia umana che veterinaria, ha permesso passi avanti notevoli nella diagnosi. Esami ematici sempre più sofisticati ci permettono di valutare la concentrazione dei singoli elementi nel sangue, la tac e la risonanza magnetica ci consentono di esplorare l’intera struttura corporea, di visualizzare anomalie sempre più piccole, le tecniche chirurgiche all’avanguardia ci mettono in grado di intervenire in modi che fino a pochi anni fa rappresentavano la fantascienza.

Eppure, nonostante tutto questo, nonostante siamo sempre più spesso in grado di dare un nome alla malattia, ci sfugge il modo per prevenirla, per comprenderne in modo profondo cause e progressione.

Mi chiedo allora se il nostro guardare all’infinitamente piccolo, il nostro scomporre gli organismi in parti microscopiche, il nostro riduzionismo meccanicistico, non ci abbia condotto a perdere di vista l’insieme: non solo il sintomo, non solo la malattia, non solo l’animale, ma anche il sistema familiare, le abitudini, l’ambiente, l’interazione, i legami.

Perché non si può curare un animale se lo si considera slegato dal suo sistema-famiglia, non si può dimenticare la sensibilità alle emozioni umane di specie differenti dalla nostra, soprattutto se parliamo di prede. Cavie e conigli, solo per considerare i più noti, percepiscono minime variazioni emozionali e ambientali e non è strano che qualcuno mi dica “Dottoressa, sembra leggermi il pensiero!”.

La scienza per sua definizione è in continuo progredire, non conosce soste né battute di arresto, è sempre in divenire, l’obbiettivo è posto in un oltre irraggiungibile.

Dall’ottocento in poi il progresso del sapere scientifico è passato dall’essere a servizio dell’uomo a dominarne l’intera esistenza, le scelte, il modo di vivere, di ammalarsi, di morire.

I Medici Veterinari hanno un vantaggio e un privilegio: hanno la possibilità di mantenere un legame con la Natura e le sue leggi attraverso l’osservazione e l’analisi del comportamento animale. Privilegio che sta diventando sempre di più un dono e una missione, una possibilità, un’ancora di salvezza da un progresso forsennato che confonde e travolge, che fa ammalare dando l’illusione di poter curare.

Per questo credo che anche in questo momento la professione veterinaria abbia il compito di occuparsi non solo degli animali ma anche delle persone attraverso di essi, mostrando loro quanto stiamo perdendo e dimenticando e quanto questo sia spesso causa delle nostre malattie, dei nostri malesseri, delle nostre nevrosi, della nostra incapacità di percepirci parte di comunità, di gruppi, di sistemi naturali.

Ed io, come Medico Veterinario e come persona, non ho alcuna intenzione di sottrarmi a questo compito.